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Deontologia forense: il dovere di segretezza e riservatezza dell'avvocato

La legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 15 del 18 gennaio 2013 ed è entrata in vigore il 2 febbraio 2013.

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In attuazione della legge 247/2012 è stato approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 31 gennaio 2014 il Codice deontologico forense, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014 e di recente modificato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2018 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2018, in vigore dal 12 giugno 2018

 

Il Codice Deontologico Forense stabilisce le norme di comportamento che l'avvocato è tenuto ad osservare in via generale e, specificatamente, nei suoi rapporti con il cliente, con la controparte, con altri avvocati e con altri professionisti. Anche tramite il rispetto di tali norme di comportamento, l'avvocato contribuisce all'attuazione dell'ordinamento giuridico per i fini della giustizia.

 

 

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Art.13 dovere di segretezza e riservatezza

"L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali. "

Art. 28 – Riserbo e segreto professionale

1. "È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato."

 

2. "L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato."

Il dovere di segretezza

La riservatezza ed il segreto su ogni notizia che l’avvocato riceve dal proprio cliente sono componenti fondamentali della sua attività professionale; si potrebbe dire che ne costituiscono il fondamento, non potendo instaurarsi altrimenti un rapporto di fiducia, tant'è che l'art.28 cod. deont. lo riconosce come un "dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell'avvocato".

 

Si tratta, quindi, di un dovere posto a tutela del cliente e riguarda in primis tutte le informazioni che quest’ultimo riferisce al proprio difensore.  

Il dovere di segretezza, infatti, impone all’avvocato di tenere riservata, innanzitutto, l’esistenza stessa del mandato conferitogli dal cliente; in secondo luogo, deve rimanere segreta la questione che il cliente gli rappresenta e che costituisce l’oggetto del giudizio. Al riguardo, il Consiglio Nazionale Forense ha precisato che l’avvocato ha il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con particolare riguardo alla trattazione dell’oggetto del mandato difensivo, non potendo farsi pubblicità mostrando chi sono i suoi clienti.

 

Il segreto professionale dell'avvocato, peraltro, non è circoscritto temporalmente alla sola durata dell'incarico che gli è stato conferito ma va mantenuto anche prima del formale conferimento del mandato, nonché dopo che il mandato sia stato adempiuto o si sia concluso, anche se e dopo che l'avvocato vi abbia rinunciato e anche quando l'avvocato non lo abbia accettato.

 

Il segreto professionale – oltre a essere alla base del rapporto di fiducia esistente tra l’avvocato e il suo cliente – costituisce una garanzia essenziale della libertà dell’individuo e del buon funzionamento della giustizia

 

Il dovere di riservatezza

Un altro dovere fondamentale e primario dell’avvocato è quello di mantenere il massimo riserbo sulle informazioni che gli sono state fornite dal cliente o di quelle di cui è venuto a conoscenza per via del mandato ricevuto da quest’ultimo. Il dovere di riserbo e segreto è posto esclusivamente a tutela della sfera privata del cliente: quest’ultimo deve poter affidare al professionista tutte le informazioni che lo riguardano senza che possano essere rivelate o diffuse. ù

 

Quando si parla di “informazioni” si fa riferimento sia a quelle comunicate direttamente dalla parte assistita, sia a quelle di cui il professionista sia venuto a conoscenza autonomamente durante lo svolgimento della propria attività del mandato.

 

L’avvocato è tenuto a rispettare anche  il dovere in esame non soltanto durante lo svolgimento dell’incarico o quando questo sia terminato, ma anche nel caso di rinuncia o di non accettazione del mandato. 

Ulteriori precisazioni

L'avvocato è tenuto a rispettare i doveri di segretezza e riservatezza anche quando fornisce informazioni sulla propria attività professionale ( art.35 co.1 cod. deont.).

 

L'avvocato deve garantire la riservatezza del cliente anche sul piano meramente formale ed esteriore, per cui se l'ufficio professionale si trova al piano terra sul fronte strada porte e finestre devono rimanere schermati o riparati dalla vista dei passanti ( CNF 37/2013).

 

Occorre precisare, inoltre, che la rivelazione di notizie relative a una controversia in corso è lesiva dell'interesse delle parti alla non pubblicizzazione delle vicende giudiziarie che le riguardano indipendentemente dal fatto che nella specie una di esse non se ne sia lamenta, costituendo una condotta idonea a pregiudicare la dignità della professione e l'immagine dell'intera classe forense.

 

Viola il dovere di riservatezza anche l'avvocato che intaschi il denaro del cliente senza il dovuto riserbo ( CNF 57/2012) ovvero con modalità non consone allo stile e al decoro della professione ( si pensi al caso dell'avvocato che intaschi il denaro nei corridoi del tribunale o per strada).

Collaboratori e praticanti

Art.28 co.3 cod. deont.

Come espressamente prescritto dall'art.28 co.3 cod. deont. i legali devono infatti adoperarsi al fine di garantire che anche i propri dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori osservino il massimo riserbo rispetto ai fatti e alle circostanze che abbiano appreso nella loro qualità o per effetto dell'attività svolta.

Tale garanzia va prestata dall'avvocato anche rispetto ai propri collaboratori occasionali.

Deroghe

Art.28 co.4 cod. deont.

A norma dell'art.28 co.4 del cod. dent. è sono consentite alcune deroghe al rispetto del segreto professionale, la divulgazione delle notizie delle quali l'avvocato è venuto a conoscenza nel corso dello svolgimento del proprio incarico è, infatti, consentita quando la divulgazione di quanto appreso sia necessaria

a) per lo svolgimento dell’attività di difesa;

b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità;

c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita;

d) nell’ambito di una procedura disciplinare.

In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato

 

Pertanto, in tali ipotesi la divulgazione è si consentita ma purché non venga divulgato più di quanto si strettamente necessario per il fine che si intende tutelare.

Il segreto professionale nel codice di procedura penale

Art.200 cod. proc. pen. segreto professionale

"Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria [331, 334]:

a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano;

b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;

c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;

d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale."

 

Il segreto professionale dell'avvocato trova la propria tutela anche nel codice di procedura penale, che, all'articolo 200, stabilisce che i legali non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione.

 

Sul punto, la Corte di cassazione ha di recente chiarito (v. sentenza numero 29495/2018) che la facoltà riconosciuta all'avvocato di astenersi dal testimoniare non è un'eccezione all'obbligo di testimoniare ma una manifestazione del principio di tutela del segreto professionale. L'articolo 200 infatti, precisano i giudici, prevede il divieto di deposizione coattiva ma non impone un divieto assoluto di sentire come teste il soggetto tenuto alla segretezza.

 

L’art. 200 c.p.p. è richiamato dagli artt. 249 c.p.c. e 9 l. n. 162/2014, i quali ne estendono l’applicazione, rispettivamente, al processo civile e alla negoziazione assistita.

 

Tale disciplina risponde all’esigenza di assicurare una difesa tecnica, basata sulla conoscenza di fatti e situazioni, non condizionata dall’obbligatoria trasferibilità di tale conoscenza nel giudizio, attraverso la testimonianza di chi professionalmente svolge una tipica attività difensiva.

 

L’esenzione dal dovere di testimoniare è destinata a garantire la piena esplicazione del diritto di difesa, consentendo che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, essere resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria o utile per l’esercizio di un efficace ministero difensivo.

Art.622 cod. pen., rivelazione del segreto professionale

1."Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516.

3.Il delitto è punibile a querela della persona offesa".

 

La ratio della norma si rinviene nell’esigenza di salvaguardia dei rapporti intimi professionali determinati da necessità o quasi necessità, nonché nell’interesse pubblico a che il professionista preservi la segretezza dei fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio del ruolo ricoperto, in tal modo garantendo la tutela della libertà e della sicurezza dei rapporti professionali.

 

Soggetti attivi del reato sono i professionisti in senso lato. Il codice si limita ad indicare alcune situazioni personali idonee a determinare il sorgere di un obbligo di segretezza. In particolare la norma fa riferimento allo stato, ad intendersi quella condizione giuridica derivante da rapporti di parentela o di coniugio, oppure nella condizione in cui si trova il soggetto che espleta una particolare attività nei confronti del richiedente, quale ad esempio quella di praticante o di segretaria; all’ufficio, da intendersi riferito all’esercizio di attività pubbliche o private da cui derivino diritti e doveri ivi comprese le funzioni svolte da tutori, consulenti o impiegati; alla professione o arte ad intendersi ogni forma di attività, principalmente retribuita, di carattere intellettuale o manuale, svolta a servizio di altre persone.

 

La giusta causa può essere individuata nella sussistenza di un interesse, prevalente rispetto a quello messo in pericolo dalla divulgazione, che può essere garantito solo attraverso la rivelazione del segreto. Giusta causa potrebbe essere anche il consenso o la ratifica da parte del titolare del segreto nonché l’esistenza di una norma giuridica che impone la rivelazione del segreto in presenza di determinate circostanze.

 

In ordine al requisito del potenziale nocumento, giova precisare che il dictum normativo è chiaro nel subordinare la punibilità del soggetto non all’effettivo verificarsi del nocumento, ma alla sola possibilità che esso si realizzi. Il reato, dunque, si perfeziona nel luogo e nel momento in cui sorge il pericolo di nocumento.

 

 

Testimonianza dell'avvocato art.51 cod. deont.

Le modifiche apportate con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014, pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 16 ottobre 2014 ed efficaci a decorrere dal 15 dicembre 2014 , come espressamente stabilito dalla medesima delibera all’art. 73. La norma di riferimento in ordine all’obbligo di segretezza sussistente in capo all’Avvocato dovrà individuarsi nell’art. 51 del nuovo Codice Deontologico Forense.

Art. 51 – La testimonianza dell’avvocato

1. L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti.

2. L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.

3. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

4. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Orbene, la suddetta norma, si esprime in termini in equivoci quanto alla individuazione di un vero e proprio dovere di astensione in capo all’Avvocato, salvo casi eccezionali, ed estende l’obbligo di segretezza a tutta l’attività professionale svolta dall’Avvocato. Pare, pertanto, ricomprendere nell’ambito di operatività del segreto professionale anche le informazioni rivelate dal cliente in un momento anteriore al conferimento del mandato professionale. Dalla portata estensiva della norma consegue che l’Avvocato non dovrà assumere la veste di testimone, ben potendo esercitare il diritto di astensione, qualora le domande rivolte dall’Ufficio di Procura attengano ad informazioni di natura confidenziale ed amichevole che il teste abbia ricevuto dall’imputato, anche in assenza di mandato professionale. Può ben dirsi, infatti, che nel momento in cui l’Avvocato riceve informazioni anche dirette ad ottenere consigli o suggerimenti, egli stia svolgendo la sua attività professionale.

 

Ciò sta a significare che se prima, in virtù della precedente formulazione dell’art. 58 del Codice Deontologico Forense, in mancanza di un formale mandato, poteva dirsi insussistente un segreto professionale da tutelare, con la conseguenza di dover considerare legittimo l’ordine impartito dal Giudice al teste di deporre sulle domande che attengono ai fatti oggetto di imputazione, a partire dal 15 dicembre 2014, l’interesse del cliente a che il professionista preservi la segretezza dei fatti di cui venga a conoscenza nello svolgimento della propria funzione vedrà una tutela rafforzata ed estesa anche alle informazioni rivelate all’Avvocato al di fuori delle ipotesi di formale conferimento del mandato professionale.

Violazione del dovere come illecito disciplinare

Art.28 ult. co. cod. dont.

" La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura e, nei casi in cui la violazione attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni."

 

La violazione del segreto professionale da parte dell'avvocato nonché il mancato rispetto, da parte sua, dell'obbligo di adoperarsi per assicurare il riserbo dei propri dipendenti, praticanti, consulenti e collaboratori comporta l'applicazione di sanzioni disciplinari.

Violazione del dovere come illecito penale

Art.622 cod. pen.

"Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516."

 

La violazione del segreto professionale, oltre che un illecito deontologico e un limite all'obbligo di rendere testimonianza, rappresenta anche un comportamento penalmente rilevante: il nostro codice penale, all'articolo 622, punisce infatti il reato di "rivelazione di segreto professionale".

 

In particolare, si tratta di un delitto punibile a querela della persona offesa e integrato ogni qualvolta un soggetto, avendo notizia per ragione, tra le altre cose, della propria professione, di un segreto lo rivela senza giusta causa o lo impiega a proprio o altrui profitto.

 

La disposizione in esame non chiarisce la nozione di giusta causa, che di conseguenza è rimandata al generico concetto di giustizia, quindi si tratta di un richiamo all'analisi che il giudice deve condurre con riguardo alla liceità sia sotto il profilo etico sia sotto quello sociale dei motivi che hanno condotto il soggetto ad compiere l'atto.

 

Il profitto non ha rilevanza solo economica o patrimoniale, ma può quindi trattarsi di un diverso vantaggio, il quale non deve necessariamente essere conseguito.

 

La pena si applica se dal fatto può derivare nocumento ed è quella della reclusione fino a un anno o della multa da 30 a 516 euro.

Il GDPR E IL SEGRETO PROFESSIONALE DELL'AVVOCATO

Ai sensi dell’art. 20 d.lgs n. 101/2018, alla fine del 2018, il Garante italiano ha emanato le “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria” (“Regole deontologiche”; cfr. Delibera n. 512/2018 pubbl. in G.U. n. 12 del 15.1.2019).

L’armonizzazione fra la protezione dei dati personali accordata dal GDPR – nonché dalla normativa nazionale di adeguamento – e la tutela del segreto professionale dell’avvocato è affidata a tali Regole deontologiche che devono essere rispettate nel trattamento di dati personali per svolgere investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sia nel corso di un procedimento, anche in sede amministrativa, di arbitrato o di conciliazione, sia nella fase propedeutica all’instaurazione di un eventuale giudizio, sia nella fase successiva alla sua definizione” (art. 1, co. 1).

 

Tali regole devono essere rispettate da parte di:

  • avvocati o praticanti avvocati iscritti ad albi territoriali o ai relativi registri, sezioni ed elenchi, i quali esercitino l’attività in forma individuale, associata o societaria svolgendo, anche su mandato, un’attività in sede giurisdizionale o di consulenza o di assistenza stragiudiziale, anche avvalendosi di collaboratori, dipendenti o ausiliari, nonché da avvocati stranieri esercenti legalmente la professione sul territorio dello Stato” (cfr. art. 1 co. 1 a) Regole deont.);
  • soggetti che, sulla base di uno specifico incarico anche da parte di un difensore, svolgano in conformità alla legge attività di investigazione privata (art. 134 r.d. n. 773/1931; art. 222 norme coord. c.p.p.)” [cfr. art. 1 co. 1 a) Regole deont.].

 

L’art. 4 co. 1 Reg. deont. (rubricato Conservazione e cancellazione dei dati), il quale stabilisce, fra l’altro, che, salvo quanto previsto dall’art. 5, par. 1, lett. e) GDPR, “la definizione di un grado di giudizio o la cessazione dello svolgimento di un incarico non comportano un’automatica dismissione dei dati."

Una volta estinto il procedimento o il relativo rapporto di mandato, atti e documenti attinenti all’oggetto della difesa o delle investigazioni difensive possono essere conservati, in originale o in copia e anche in formato elettronico, qualora risulti necessario in relazione a ipotizzabili altre esigenze difensive della parte assistita o del titolare del trattamento, ferma restando la loro utilizzazione in forma anonima per finalità scientifiche.

La valutazione è effettuata tenendo conto della tipologia dei dati. Se è prevista una conservazione per adempiere a un obbligo normativo, anche in materia fiscale e di contrasto della criminalità, sono custoditi i soli dati personali effettivamente necessari per adempiere al medesimo obbligo”.

 

Il co. 2 dell’art. 4 Reg. deont. stabilisce che, salvo quanto previsto dal codice deontologico forense in ordine alla restituzione al cliente dell’originale degli atti da questi ricevuti, e salvo quanto diversamente stabilito dalla legge, “è consentito, previa comunicazione alla parte assistita, distruggere, cancellare o consegnare all’avente diritto o ai suoi eredi o aventi causa la documentazione integrale dei fascicoli degli affari trattati e le relative copie”.

 

Il co. 3 dell’art. 4 Reg. deont. prevede che “in caso di revoca o di rinuncia al mandato fiduciario o del patrocinio, la documentazione acquisita è rimessa, in originale ove detenuta in tale forma, al difensore che subentra formalmente nella difesa”.

 

L’avvocato che rinunci al mandato, fino a che non sia avvenuta la sostituzione del difensore è tenuto a informare la parte assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli relativamente al precedente incarico, al fine di evitare pregiudizi alla difesa.

Tali principi sono validi anche per la revoca del mandato, quanto meno sotto il profilo della violazione dei doveri di correttezza e di diligenza.

Deriva che, in base all’art. 85 c.p.c., ciò che priva il procuratore della capacità di compiere o ricevere atti non sono la revoca o la rinuncia, di per sé soli, bensì il fatto che alla revoca o alla rinuncia si accompagni la sostituzione del difensore. La rinuncia al mandato da parte del procuratore – come la revoca da parte del conferente – è, infatti, dichiarazione recettizia a forma libera, che produce effetto nei confronti dell’altra parte quando sia avvenuta la sostituzione del difensore,.

Conseguentemente, il difensore che abbia rinunciato al mandato conserva (fino alla sua sostituzione) la legittimazione a ricevere gli atti indirizzati dalla controparte al suo assistito.

 

 

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